Il pittore
che si ispira alle sensazioni
“I
miei quadri sono resoconti della giornata, che di notte la mia mente
produce come fotografie ed io devo solo afferrare i pennelli e i
colori da mettere insieme”
BELLO
MA SENZA SENSO (olio su tela)
Lo sguardo è quello
incantato, sognante e trascendentale di chi porta con se un destino
specifico: quello di Francesco Collura è sicuramente legato alla
pittura. Il pittore che si ispira alla sensazione. Da Siciliano porta
con se le sfumature e le seduzioni di una terra che canta le passioni
più intense, i colori più caldi e i culti più sentiti. Ma
Francesco sa che, come un podere da coltivare, oltre la sua terra,
c’è altro da imparare e scoprire, deve piantare i semi che gli
permettano di germogliare nella sua arte, cosi come la terra ben
curata darà i frutti migliori. Va via da Palermo un giovanissimo
laureato in scienze artistiche, portando con se uno zaino carico di
sogni, tenacia e colori. Giunto nella capitale, la Roma della
grandezza, percepisce che li può catturare il meglio per poi tornare
in Sicilia, perché solo li la sua arte esprime la primavera dei
colori e delle immagini pensate per le sue tele: la sua terra ha
bisogno di lui come lui della sua terra, una simbiosi empatica, un
legame viscerale tra madre Sicilia e una sua creatura.
Francesco
Collura, pittore
Rientrato in Sicilia,
decide di mostrare il vigore della sua arte a tutti ed apre un
atelier: i suoi dipinti sono caratterizzati da uno stile particolare
e riconoscibile che non si ispira ai grandi maestri del passato, ma
che deriva da una attenta osservazione del mondo e dalla cattura
dell’anima delle cose che analizza minuziosamente, cogliendone una
sorta di carpe diem
emozionale.
Le sue tele sono
caratterizzate dal colore, da linee fantasmagoriche, dall’intensità
degli sguardi, dalla sinuosità delle curve, dalla sensazione che,
dietro quel pennello, ci sia un uomo emozionato, la cui anima palpita
e trasforma in bacchetta magica quello stesso strumento da lavoro che
da vita, con armonica disinvoltura, a colori, linee, punti ed
emozioni.
L’EROE
(olio su tela)
Francesco lancia un ponte
verso l’onnipotenza dell’arte e della cultura, si fa condottiero
del bel pensare e dell’intelletto artistico che, nel sud d’Italia,
trova la sua culla, il suo nido ideale.
Il suo è un genere
figurativo in cui si intravedono fatti concreti e sogni propri del
pittore oppure delle emozioni che il pittore stesso percepisce nella
gente comune.
Il suo rapporto con le
tele appare simbiotico a tal punto che egli stesso si dipinge in
esse, quasi come se i suoi lavori fossero un prolungamento della sua
mente e della sua anima. Molto spesso nelle stesse opere sono
rappresentati personaggi con un solo occhio imponente, icona di una
critica alla società passiva e mono – critica nei confronti della
res publica.
Osservazione,
metabolizzazione, interiorizzazione ed esposizione della propria
opinione attraverso il colore, una arte a tal punto emozionata ed
emozionante che seduce, come il canto delle sirene, lo spettatore che
si appresta ad osservarle, a sentirle. La sua è una voce che, come
un vortice, trascina nella sfera emozionale con naturalezza,
recuperando il mito dell’io che si svela dinanzi alla tela,
espressione profonda dell’essere. Ogni dipinto contiene un
“meccanismo catartico”, quasi come nel teatro greco antico:
appena si ha il contatto con queste opere ci si trova modificati,
come purificati dall’appiattimento quotidiano: come se, nel preciso
momento dell’osservazione e della interiorizzazione, si lasciasse
la condizione di capro espiatorio e si arrivasse ad una condizione di
beatitudine psico – fisica.
Quegli
occhi addosso (olio su tela)
La magia dell’arte e
della cultura, quando ben coltivata, è proprio questo: una sorta di
scarpetta magica che, se indossata, cambia la vita, fornisce gli
strumenti per comprendere meglio e capirsi.
La varietà delle opere di
Francesco Collura indica una capacità poliedrica di cogliere
frammenti dell’io in tante cose, un io ispirato dai profumi, dai
colori e dalla magia di una terra, la Sicilia, che porta nel suo
seno, l’orgoglio di essere, insieme alle altre terre del sud
Italia, regina del pensiero, dell’arte e della cultura.
La grinta, l’amore e le
capacità di questo giovane pittore hanno portato la sua arte anche
in molte mostre, come quando ha
accettato
l'invito del sindaco di Marina di Salina, esponendo "Ai 5
balconi" durante la notte della cultura 2013.
Per
Francesco, ogni sorriso di chi osserva le sue opere è come una
fotografia che lo emoziona e lo gratifica, la vittoria più
importante e determinante della sua arte del fare cultura.
La
Sicilia è anche questo.
Dott.ssa
Serena Amato
Serena Amato, nata a
Napoli ventotto anni fa, ha una laurea triennale in Conservazione
Dei beni culturali
DemoEtnoAntropologici del Mediterraneo conseguita con 110 e lode
e menzione accademica
della commissione esaminatrice unanime e una laurea specialistica
in Scienze dello
spettacolo e della produzione Multimediale reportage
socio-antropologico anch’essa conseguita con la votazione 110 e
lode. Ha partecipato alla stesura de “Il libro delle superstizioni”
del Prof. M. Niola. e della Prof.ssa E. Moro. Attualmente è
collaboratrice presso la Cattedra universitaria di Antropologia ed
Etnologia.
L’ammiraglio
Horatio Nelson e lady Emma Hamilton
Dott.ssa Serena Amato
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« Vos
et ipsam Civitatem benedicimus »
Messina,
fondata dai Greci, fu chiamata in principio Zankle,
un
termine siciliano che indica la falce che a sua volta richiama la
forma del porto naturale che è molto importante anche per il
commercio dell’isola. In età Greca, questa città venne denominata
Messene,
poiché il tiranno di Reggio vi insediò i profughi della Messenia;
in età romana il suo nome fu Messana; poi con l’avvento della
dominazione araba in Sicilia, venne chiamata Massinah; infine dal
periodo bizantino ad oggi la città è conosciuta con il nome di
Messina. Lo stemma della città messinese è cosi descritto
dall’araldica: « Scudo
a testa di cavallo, di rosso alla croce d'oro, circondato da due
tralci di vite al naturale fruttati d'oro, timbrato dalla corona di
città ».
Nel periodo svevo, angioino ed aragonese fu città prospera, entrò a
far parte del Regno delle Due Sicilie assieme a Palermo; inoltre fu
importante centro commerciale grazie al suo porto, divenendo la città
del sud più ricca, seconda solo a Napoli. Ma un evento catastrofico
colpì di notte la città siciliana alle ore 05.21 del 28 dicembre
1908: un
terremoto di intensità violenta si abbatté senza pietà sul
messinese, tra la Calabria e lo Stretto di Messina, rafforzato da un
successivo e violento maremoto che trascinò via frammenti di storia
ed identità culturale del luogo, oltre ad aver provocato tantissime
vittime. I primi a soccorrere siciliani e calabresi furono russi ed
inglesi, molte persone vennero trasportate a Napoli. A
Messina si era trascorsa una serata tranquilla: si celebrava la festa
di Santa
Barbara
e a Teatro veniva inscenata l'Aida;
il tenore Angelo
Gamba,
che interpretava
uno dei protagonisti dell’opera lirica,
morì sotto le macerie dell'Hotel Europa ove risiedeva, insieme con
la moglie e ai due figli.
La Palazzata messinese, una storica serie di palazzi che affacciava
sul porto, venne completamente distrutta, assieme al famoso
Duomo
di Messina,
che venne in seguito completamente ricostruito con l’aggiunta del
campanile laterale.
Messina
vide polverizzarsi, in pochi minuti, la maggior parte della memoria
storica legata a quella che era stata l'evoluzione urbanistica nei
secoli precedenti.
La
relazione al Senato
del Regno
del 1909
sul terremoto di Messina e Reggio è spaventosa: «Un
attimo della potenza degli elementi ha flagellato due nobilissime
province – nobilissime e care – abbattendo molti secoli di opere
e di civiltà. Non è soltanto una sventura della gente italiana; è
una sventura della umanità, sicché il grido pietoso scoppiava al di
qua e al di là delle Alpi e dei mari, fondendo e confondendo, in una
gara di sacrificio e di fratellanza, ogni persona, ogni classe, ogni
nazionalità. È la pietà dei vivi che tenta la rivincita
dell’umanità sulle violenze della terra. Forse non è ancor
completo, nei nostri intelletti, il terribile quadro, né preciso il
concetto della grande sventura, né ancor siamo in grado di misurare
le proporzioni dell’abisso, dal cui fondo spaventoso vogliamo
risorgere. Sappiamo che il danno è immenso, e che grandi e immediate
provvidenze sono necessarie».
Messina
non è solo storia, ma anche cultura mito, rito, identità che si
riflette in credenze, valori condivisi, religione, canti e balli
popolari. Una tradizione sacra messinese racconta che San Paolo,
giunse in questa terra per diffondere il cristianesimo. Qui subito
coinvolse emotivamente i messinesi e saputa della presenza della
Madre del Signore a Gerusalemme, alcuni ambasciatori siciliani
giunsero nella Sacra Terra e la Madonna scrisse una Lettera con cui
benediceva Messina, i suoi abitanti e ne diventava per sempre la
protettrice: “‘Na
littra priziùsa e risirvàta ‘ttaccàta cu ‘na ciòcca
profumàta. Di ‘ddi capìddi di la Matri Santa Missìna ancora oggi
si nni vanta”.
Messina
terra di radicate tradizioni e folclore condiviso, un piccolo mondo
grazie al quale è possibile intraprendere un viaggio profondo ed
empatico verso la conoscenza delle radici di questa città siciliana.
Grande importanza per il credo religioso di questa terra è il
Venerdi Santo che , riprende una antica processione detta “Varette”
risalente al 1610, in cui si possono osservare le statue della
Madonna Addolorata, la passione di Cristo e l’Ultima cena. Il
giorno della festa del Corpus
Domini,
dalla Cattedrale si
snoda una lunga processione preceduta da fedeli incappucciati detti
"Babaluci"
e da tutte le associazioni, congregazioni ed arciconfraternite
religiose della Città. Viene portato a spalla il "Vascelluzzo",
un ex voto fatto dai messinesi in segno di ringraziamento verso
la Madonna
della Lettera la
quale, in occasione di varie carestie, miracolosamente fece giungere
nel porto della città alcuni vascelli carichi di grano.
Nei
giorni precedenti il 15 agosto, per le vie di Messina si realizza la
processione dei due Giganti e
del Cammello,
assieme a numerosi gruppi folkloristici. In particolare, le due
colossali statue a cavallo raffigurano i leggendari fondatori della
città, la messinese
“a gigantissa”
Mata ed il moro Grifone detto "u
giganti ".
La
festa che coinvolge il numero più alto di partecipanti è la
celebrazione della Madonna dell’Assunta, rito di Ferragosto: viene
portato in corteo pubblico un antico simbolo votivo: la Vara,
raffigurante le fasi dell'Assunzione
della Vergine Maria al
cielo. A
Messina, una leggenda racconta che Ruggero
il Normanno, invitato dai messinesi a liberare la Sicilia dai
musulmani, sentì d’un tratto odore di zagara, aranci, urla e
musica da ballo. Nel mare apparve la fata Morgana che tentò di
portare dalla sua parte il giovane sovrano che rifiutò sottolineando
che avrebbe liberato la Sicilia grazie alla benedizione di Cristo. La
fata scomparve. In virtù di questo aneddoto, si crede che, in alcuni
giorni tersi, la
costa calabra sembra tanto vicina alla Sicilia, che
si possa quasi
toccare con le mani: il fenomeno è dovuto ai cambiamenti della
densità dell'aria prodotta da elevati gradienti di temperatura in
vicinanza del suolo e alla conseguente variazione dell'indice di
rifrazione. Attraversando lo Stretto
di Messina, non si può fare a meno di pensare a Ulisse e a tutti gli
inconvenienti a cui dovette fare fronte per poter ritornare ad Itaca,
a causa dei mostri Scilla e Cariddi.
Scilla, la mostruosa
figlia di Ecate, legata all'oltretomba e alla luna, attendeva Ulisse
e i suoi compagni sulla costa calabra, emergendo dal mare come una
enorme piovra, mentre Cariddi
si celava in una
grotta della costa messinese, spaventava i navigatori creando
mulinelli per inghiottire le imbarcazioni di passaggio. La
leggenda messinese di Cola
Pesce, invece,
narra della decisione del re Federico II che, incuriosito dalle
notizie delle imprese di Cola, lo volle mettere alla prova
promettendogli grandi doni. Il re gettò per due volte a mare, un
vaso d'oro e invitò Cola Pesce a recuperarlo, il quale ci riuscì,
riportando al re il vaso d'oro. Al
terzo lancio, Cola Pesce rimase in fondo al mare e non riapparve più
in superficie: giunto in fondo al mare, si accorse che una delle tre
colonne, quella di Capo Pelòro stava per cedere con la conseguenza
che la sua Messina rischiava di sprofondare. Fu così che decise di
rimanere in fondo al mare per sostenere sulle sue spalle la colonna
di Capo Pelòro. Quando ci sono terremoti nell'area dello Stretto, la
leggenda popolare messinese ritiene che Cola Pesce, a causa della
stanchezza nel sorreggere sulla stessa spalla la colonna di Capo
Peloro, la passa sull'altra e cio' causerebbe movimenti. Ecco
spiegata la sismicità di questa zona.
Messina,
splendida terra di leggende, di genialità e cultura, è nota
anche per tradizione artistico - letteraria e pertanto grandi sono i
nomi legati a questa rigogliosa terra del sud, si ricorda il pittore
Antonello da Messina autore di due celebri dipinti “Salvator
Mundi”
prima opera da lui firmata del 1465 e “Vergine
Annunciata” datata
1475, una tela straordinaria, la più celebre del pittore messinese.
In campo letterario, si cita il poeta romantico Giuseppe Felice
Bisazza,
che scrisse l’opera, “Versi
Poetici”,
la quale gli procurò l'ammirazione di molti influenti letterati e
l'onorificenza della Croce di cavaliere da parte del re Ferdinando II
delle Due Sicilie;
altra personalità importante messinese fu il filosofo e geografo
antico Dicearco da Messina. Nel
pensiero del filosofo messinese, si elogia la vita attiva rispetto a
quella contemplativa, si rinnega il fato e si consegna all'uomo la
responsabilità nella costruzione del proprio destino. La
decadenza morale e sociale è dovuta, dal punto di vista di Dicearco,
al cattivo impiego della ragione.
Anche la cucina messinese è famosa per i suoi piatti succulenti:
tra le varietà culinarie ritroviamo la Caponata, la parmigiana di
melanzane; la frittata di patate, l’insalata di pesce stocco, “i
Pituni” tipica ricetta della rosticceria messinese, gli arancini,
la tipica “pasta
‘nciaciata”
con melanzane, carne trita, pomodori e provola; la “Pasta
ca muddhica”
a base di acciughe; la “Pasta
'a carrittera”; “U Maccu” con
fave secche e pomodori; l’agnello alla messinese; calamari ripieni;
pesce spada alla messinese; Aguglie
fritte (custaddeddhi fritti); sino
ad arrivare ai dolci messinesi famosi in tutto il mondo come la
Pignolata, la cassata e i cannoli siciliani ed infine la frutta martorana
che richiede una particolare attenzione per la preparazione della
forma della frutta. Messina, un’altra perla che la terra del sud ha
voluto donare al meridione d’Italia, profumata di tradizione,
splendente di cultura e bagnata dalle acque dei miti, delle leggende
e del folclore condiviso dal popolo siculo, brillante quadro
pittoresco della sognante isola siciliana.
Delitto
d’onore e le donne tra Islam ed Occidente
L’ira
funesta del
delirio d’onore e della malinconia del rispetto creano capri
espiatori che si accrescono grazie all’uso di una forza violenta
insita nell’uomo che tende all’auto difesa della propria
virilità; infatti, è proprio per proteggere il narcisismo virile
che si uccidono vittime sacrificali, non scelte in base alla
religione, cultura o tradizione, ma in
virtù di
una distorsione del significato di certi simboli che risultano
adattati al principio che si ritiene necessario, in questo caso
quello della virilità. La mascolinità è una posizione che va
conquistata attraverso passaggi rituali codificati o occasionali che
richiedono all’uomo prove di coraggio da superare per evitare di
perdere dignità verso la propria comunità. Nella Grecia omerica le
donne sono burattini nelle mani dell’uomo, vengono considerate
ombre del marito
che devono provvedere alla casa e obbedire al maschio, servirlo e
sostenerlo in silenzio nelle faccende politiche.
Esiste una
simbologia legata allo strumento della lira
che diviene icona della donna silenziosa e casalinga, dedita alla
prole ed al marito, proprio come Penelope che attende casta il
ritorno ad Itaca del consorte Ulisse, contrapponendosi alla donna
flauto, come Medea,
che sconvolge lo schema tradizionale, dando voce ad un’immagine
femminile dedita agli eccessi e al piacere immorale.
A volte, la
donna è concepita come un male necessario,
naturale difettosità,
il cui adulterio deve essere punito con il suo ripudio da parte del
marito e l’uccisione dell’amante. Solo in questo modo l’uomo
può evitare la privazione dell’onore ( atimia).
In Giappone, l’uomo virile è una sorta di Bushido,
un guerriero portatore di valori quali la fedeltà, attività e
spirito di sacrificio. Egli è posto di fronte a due tipi di prove
per raggiungere la mascolinità completa: attraverso la koha1,
dura scuola militare oppure praticando la nanpa,
scuola morbida, che rende questi uomini
pratici ed esperti economi con uno spirito tenace nel lavoro, qualità
ritenute primarie per un raggiungimento effettivo della virilità.
Ovunque si
parla di virilità. Essa è proprio come una maschera perpetua cucita
sul volto dell’uomo che cosi riesce a commettere le più
impensabili azioni, pur di difendere il proprio onore e la
reputazione pubblica. Uccidere per salvaguardare il proprio onore è
una pratica che getta le radici in tempi antichissimi ed è legata
soprattutto ad una resa dei conti che avviene in ambito familiare,
spesso nei confronti delle donne, ritenute inferiori fisicamente e
moralmente per natura: maior dignitas est in
sexu virili.
La virilità
giustifica il possesso di una donna, spesso offesa senza che possa
ribellarsi; nella sua condizione, ella non può amare e non può
unirsi all’uomo dei sogni perché rischia di pagare con la vita la
nefasta scelta: non è lecito per una donna essere straordinaria nel
senso di diversa, strana, straniera alla comunità di appartenenza,
allo scopo di evitare contatti esterni che contaminino la cultura
autoctona, la quale si chiude nell’immunità tradizionalista
dell’intolleranza.
La virilità
e l’onore maschile legittimano ogni tipo di violenza ritualizzata
come duelli, omicidi e anche delitti per la salvaguardia dell’onore
che si rivolgono fondamentalmente contro consorti, sorelle e figlie.
Il cammino dell’uomo ha conosciuto, in molte epoche ed in svariati
paesi, uccisioni rituali di donne, bambine, mogli che non rispettando
il codice virile, hanno pagato con la vita questo attentato al
diritto maschile.
Nella Grecia
classica, il noto oratore Lisia (Atene, 445
a.C. – Atene, 380
a.C.) scrive
un discorso in difesa di un ateniese chiamato Eufileto che aveva
ucciso un uomo, Eratostene, sorpreso nella propria abitazione a
commettere adulterio con sua moglie.
Per
concessione della legge ateniese, un marito tradito poteva punire
personalmente l’adulterio se l’avesse colto in flagranza di
reato, applicando la sanzione prevista, che consisteva nell’uccidere
l’adultero.
In
virtù del diritto attico, un caso di questo tipo, non veniva
considerato assassinio ma
phonos
dikaios, un
omicidio giustificato, perché un cittadino in casa propria aveva il
diritto di eliminare chi voleva nuocergli e tale sanzione valeva sia
per i seduttori che per i ladri colti sul fatto.
Il
delitto d’onore per adulterio era anche presente nelle “Leggi
scritte col sangue” di
Dracone, che tra le varie punizioni, consentiva anche di uccidere
l’adultero; infatti,
l’offeso
poteva accettare denaro (poinè)
in cambio del
torto subito oppure poteva intraprendere una causa per adulterio
(graphè
moikeia). Il
marito oltraggiato aveva
l’obbligo
però di ripudiare la moglie che, a quel punto, veniva esclusa da
ogni iniziativa sociale e privata di ogni ricchezza, dichiarandone la
morte sociale e divenendo un rifiuto della società.
L’Apologia
per l’uccisione di Eufileto (Yper
tou Eratostenous phonou apologhia)
coinvolge Lisia nella difesa di questo marito tradito che uccide
l’amante di sua moglie e, sebbene per questo reato non fosse
previsto un giudizio in tribunale, l’uomo si trova
implicato
perché alcuni parenti dell’adultero temevano che Eufileto avesse
organizzato un piano per riuscire a cogliere l’adulterio in
flagrante.
Nonostante
ciò, il tribunale sancisce, grazie anche ad una delazione, la
legittimità dell’atto perché è un omicidio giustificato a scopo
d’onore.
La
perorazione difende Eufileto come cittadino onesto che ha applicato
le leggi e pertanto non può essere punito al posto di chi viola,
egli ha il diritto di giudicare i reati di sangue, infatti, Eufileto
dice “ …non
ti uccido io, ma la legge della città (ouk egò se apoktenò, ap’ò
tes poleos nomos)”.
Nella
Roma classica, epoca in cui la donna veniva considerata un bene e
comperata da colui che la bramava come sposa ( per
coeptionem), l’adulterio
delle mogli verso i mariti veniva punito in modo violento,
condannando queste donne ad una morte crudele, se scoperte in
flagranza di reato.
Molti
amanti venivano uccisi a colpi di scudiscio, ad altri venivano
amputati i genitali. Augusto, in epoca imperiale, stabilì che solo
il padre poteva uccidere la donna sorpresa in flagranza di adulterio
ed il marito poteva cacciare l’amante. Ma con Costantino e poi con
Giustiniano, la pena di morte per l’amante di una moglie, viene
riconfermata.
All’epoca
romana risale la vicenda di Fausta Flavia Massima ( 298- 326 d.C.)
che divenne moglie dell’imperatore Costantino I.
Nel
326, accusò Crispo, figlio di primo letto dell’imperatore, di
averla sedotta, facendolo condannare a morte. Quando Costantino venne
a conoscenza dell’innocenza del figlio, probabilmente ordinò di
strangolarla in un bagno caldo o altre fonti dicono che fu uccisa con
l’accusa di adulterio e condannata alla damnatio
memoriae.
Durante
il Medioevo, il Cristianesimo non badò alla parola di Gesù che
prevedeva che la donna fosse libera, ma la rese esistenza subalterna
in due modi: da un lato l’atto sessuale aveva lo scopo esclusivo di
generare prole, destinando la donna ad una maternità forzata proprio
per la capacità tutta femminile di creare nuova vita; dall’altro
eleggendo la donna a figlia, moglie e madre, sancì la completa
subalternità femminile. Addirittura, in molte chiese, le donne
avevano un ruolo inferiore, da un lato esse dovevano smettere di
parlare (mulieres
in ecclesiis taceant), una
sorta di rimprovero al vocio femminile, dall’altro spesso si
impediva loro di intonare canti religiosi. Pertanto, la loro
condizione interiorizzata e in stato subalterno, le rendeva preziose
schiave dell’uomo, da lui dipendevano e a lui dovevano rispetto.
Cosi,
una triste leggenda medievale ricorda la nobildonna Rosania Fulgosio,
vissuta nella seconda metà del 1200 ed andata in sposa ad un signore
di Gropparello in Val D’Arda, Pietrone da Cagnano. Quest’ultimo,
durante le lotte tra feudatari, abbandonò Rosania, spinto dal dovere
e dall’ardore bellico, caratteristiche proprie di un uomo d’onore.
Da
sola Rosania divenne facile preda dei nemici, infatti, si lasciò
trasportare dalla passione per il capitano Lancillotto Anguissola,
antico amore di gioventù, che la lasciò poco dopo per tornare alle
imprese belliche, dovere ed orgoglio di un vero guerriero.
Al
suo ritorno, scoperto l’adulterio, Pietrone decise di costruire una
stanza segreta, nascosta all’apparenza da pietre, per murare viva
la moglie, in modo che la rea azione sarebbe stata punita con la
dannazione eterna della sua anima infatti, le sue ossa non sono state
ancora ritrovate.
La
sua virilità ed il delitto d’onore ai danni di Rosania furono
pienamente realizzati.
Altra
vicenda legata al delitto d’onore è quella di Paolo e Francesca,
ricordati da Dante nel suo Inferno, colpevoli di adulterio e puniti
per non macchiare l’onore dei casati. Francesca fu costretta a
sposare lo storpio Gianciotto Malatesta, uomo provato dalle guerre ma
molto ammirato proprio per le sue capacità fisiche durante le
battaglie.
La
giovane e bella Francesca si innamorò però del fratello di
Gianciotto, Paolo, bello e vigoroso, che una sera, leggendo insieme
alla cognata di Lancillotto e Ginevra, cadde preda della passione.
Gianciotto,
scoperto il misfatto, ripulì il suo onore con un doppio omicidio:
uxoricidio e fratricidio: “ amor
ch’a nullo amato amar perdona, mi prese del costui piacer si forte,
che come vedi, ancor non m’abbandona. Amor condusse noi ad una
morte. Caina
attende
chi a vita ci spense…”
Anche
Pia Dè Tolomei, andò in sposa a Nello dei Pannocchieschi, signori
della Maremma.
Probabilmente,
la donna, falsamente accusata di adulterio in assenza di Nello, venne
rinchiusa dal marito nel castello di Pietra, infetto di malaria, ove
Pia si ammalò e morì di stenti.
Anche
in questo caso, molti dicono di aver visto un fantasma femminile
gettarsi dal balcone del Castel di Pietra: “ ricordati
di me che son la Pia. Siena mi fe disfecemi Maremma salsi colui che
inanellata pria, disposando, m’avea con la sua gemma”.
Durante il Rinascimento, alle donne fu concesso di prender parte a
eventi di vita e di arte, ma questo restò un privilegio riservato
alla classe aristocratica. Differenti erano le condizioni dei ceti
subalterni in cui la donna era per natura relegata negli affari
domestici e sotto il controllo del coniuge.
Tutti
i sacrifici economici venivano condotti per dare prestigio al figlio
maschio, mentre alla figlia femmina si cercava un buon partito da
farle sposare.
Tragica
vicenda rinascimentale è quella di Beatrice Lascari Tenda, duchessa
di Milano, che sposò in prime nozze, il condottiero Facino Cane e in
seconde nozze il conte di Milano Filippo, che scoprì una
corrispondenza equivoca e accusò la moglie di adulterio.
Fece uccidere lei e
il suo amante attraverso torture cruente. Molti credono ancora oggi
nell’innocenza di Beatrice.
Anche
nella nota famiglia De Medici si consumarono due omicidi a distanza
di poco tempo: il primo fu quello di Leonora de Toledo che sposò
Pietro de Medici, il quale trascurava la giovane moglie, che trovò
conforto nelle parole del nobile Bernardo Antinori.
Pietro
riuscì ad intercettare delle lettere della moglie e stabilì di
ucciderla, soffocandola a Villa di Cafaggiolo con le proprie mani,
mentre Antinori morì in prigione.
Pochi
giorni dopo, fu Paolo Orsini ad uccidere la moglie Isabella de Medici
in Villa Cerreto Guidi, perché venuto a conoscenza di una relazione
adultera tra lei e Troilo Orsini.
Altra
triste storia è quella di donna Laura Lanza, che per un patto
paterno, andò in sposa al Barone di Carini. Delusa dalla vita
matrimoniale, incontra e s’innamora del giovane e nobile Ludovico
Vernagallo e tra loro sboccia la passione amorosa.
Il
Barone, scoperta la relazione, informa il padre di Donna Laura, che
decide di uccidere la figlia e l’amante, nella camera da letto del
castello di Carini dove i due avevano consumato notti d’amore e
dove erano stati colti a commettere adulterio.
Nel
2007 il regista Umberto Marino realizza una sorta di secondo atto
dedicato alla Baronessa di Carini. L’opera si ambienta nell’1800:
Laura è la reincarnazione di Donna Laura Lanza, vissuta in epoca
rinascimentale mentre Luca, l’uomo di cui si innamora, quella di
Ludovico Vernagallo.
La
vicenda è la medesima con la variante finale per cui i due giovani
amanti si salvano, lasciando morire il marito di lei nel castello che
brucia tra le fiamme, insieme alla maledizione del casato Lanza.
Questo
excursus
di esempi tutti italiani è un modo per comprendere che il delitto
d’onore è stato pratica diffusa e soprattutto per sfatare il mito
del XXI secolo che ritiene che siano esclusivamente gli islamici ad
aver usato ed usare quest’arma per sottomettere il sesso femminile.
Se gli esempi riportati possono sembrare troppo lontani, risultano
comunque essere una prova del fatto che in Italia il delitto d’onore
è stato presente per molti secoli. Basti pensare che fino al 1981 vi
furono delle attenuanti al delitto d’onore, infatti, sino a
quell’anno, la Corte d’Assise riconosceva con l’articolo 587
c.p. l’offesa all’onore, dichiarando:
Chiunque
cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell´atto
in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d´ira
determinato dall´offesa recata all´onor suo o della famiglia, è
punito con la reclusione da tre a sette anni.
Alla
stessa pena soggiace chi, nelle dette circostanze, cagiona la morte
della persona che sia in illegittima relazione carnale col coniuge,
con la figlia o con la sorella.
L'art.
587 del codice penale consentiva quindi che fosse ridotta la pena per
chi uccidesse la moglie, la figlia o la sorella al fine di difendere
"l'onor suo o della famiglia". La circostanza prevista
richiedeva che vi fosse uno stato d'ira (che veniva in pratica sempre
presunto). La ragione della diminuente doveva reperirsi in una
"illegittima relazione carnale" che coinvolgesse una delle
donne della famiglia; di questa si dava per acquisito, come si è
letto, che costituisse offesa all'onore. Anche l'altro protagonista
della illegittima relazione poteva dunque essere ucciso contro egual
sanzione.
Quando in Corte d’Assise ad un imputato tradito veniva riconosciuta la giusta ragione per l’atto violento ai danni della moglie adultera, il pubblico in aula applaudiva.
Quando in Corte d’Assise ad un imputato tradito veniva riconosciuta la giusta ragione per l’atto violento ai danni della moglie adultera, il pubblico in aula applaudiva.
Uccidere
la moglie infedele, dare rispetto ad una figlia disonorata, era un
dovere d’onore per un vero uomo.
Nel
1905 lo scultore Filippo Cifariello era sposato con Maria de Brown,
quando la sorprese a letto con l’amante: la reazione fu immediata
cioè uccise entrambi.
Nel
1954 Luigi Millefiorini uccise la moglie adultera e fu scarcerato tra
il tripudio maschile. Nel 1978 un maresciallo della polizia pose fine
alla vita della moglie che gli
dichiarò
di amare un altro uomo. La condanna fu di soli 2 anni di reclusione.
Il disprezzo di alcuni verso tale pratica violenta è ricordato nel
film del 1961 del regista
Germi
“ Divorzio
all’italiana”,
in cui un barone siciliano cerca di farsi tradire dalla moglie per
potersene liberare secondo legge quindi attraverso il delitto
d’onore, per
potere
giacere con la donna che desidera.
Il
barone fu condannato ad una sanzione ridotta e sposò in seguito la
donna di cui si era invaghito.
Sino
al 1980, quindi, si uccideva senza subire grandi disposizioni perché
veniva considerato un atto giusto. L’avvocato Giuseppe Casalinuovo
cosi difese l’atto d’onore del signor Mazzone : “E´
il disonore che ci devasta, che ci rende folli. In noi c´è il fuoco
dei nostri vulcani... se sei tradito uccidi, te lo gridano i tuoi avi
da millenni, te lo gridano i tuoi morti da tutte le fosse. Uccidi, se
no sei disonorato due volte”.
In
Italia, alcuni tentarono di abolire il delitto d’onore.
L’ordinamento penale sancì l’incostituzionalità dell’articolo
559 c.p. che prevedeva la punizione del solo adulterio della moglie e
non anche del marito e del concubinato del marito (sentenze n.126 del
19 dicembre 1968 e n.147 del 3 dicembre 1969, ma in precedenza, nel
1961 si era già espressa in senso opposto). La prima sentenza fu
compiuta dall’onorevole Oronzo Reale che propose l’abrogazione
delle particolari previsioni sull’omicidio a causa d’onore, idee
rilanciate anche da Vassalli. Ma tali abbozzi di legge rimasero
bloccati perché non benaccetti dall’opinione pubblica.
Solo
dopo il referendum sul divorzio (1974), quello sul diritto di
famiglia (1975) e quello sull’aborto, gli ordinamenti sul delitto
d’onore vennero revocati con la norma giudiziaria 442 del 5 agosto
1981. Tale ragionamento serve a dimostrare che non solo i musulmani
radicali abusano del delitto d’onore, (tra i casi più recenti si
ricordano quelli della pakistana Hina Saleem e della giovane Sanaa
Dafani), poiché anche l’Italia ne ha fatto largo uso. Sono tutti
colpevoli, nessuno giusto.
Serena Amato
LEONFORTE
Situata a 625 metri sopra
il livello dele mare, Leonforte si
colloca sulle pendici meridionali dei monti Erei a sud del monte
Altesina ed è conosciuta, tra le altre cose, per essere una zona
particolarmente ricca d’acqua.
Leonforte fu fondata nel
1610 dal barone di Tavi N. Placido Branciforti sul cui stemma
gentilizio troneggiava un leone coronato d'oro. Il nome Leonforte fu
scelto per eternare la stirpe dei Branciforti.
Molti studiosi ritengono
che in questa zona si
ergeva l’antica città sicula di Tabas o Tavaca.
Arroccati
su una rupe sorgono i ruderi del castello
di Tavi volgarmente detto
“u
Castiddazzu”.
La fortezza, di probabile origine bizantina, divenne poi un elemento
di difesa arabo e poi normanno fino a divenire sede della “Baronia
di Tavi”. In seguito, nelle vicinanze di
questa struttura, si è costituito il famoso “casale”. In quel
periodo nacquero anche sistemi per permettere l’irrigazione delle
colture e vari mulini che avevano il compito di sfruttare
l’abbondanza dell’acqua nel migliore dei modi. A
poca distanza dal Castiddazzu
si incontrano i ruderi del Castello di Guzzetta che ebbe delle
vicende storiche analoghe alla fortezza di Tavi. Nel territorio sono
presenti alcuni oratori rupestri di epoca Bizantina tra cui la Grotta
di S. Elena.
Sulla cima del monte Altesina si possono scorgere i resti di un villaggio preistorico mentre sulle pendici e possibile ammirare i ruderi del “Cummintazzu”, antico eremo di monaci denominato S.Maria di l’Artisina.
Sulla cima del monte Altesina si possono scorgere i resti di un villaggio preistorico mentre sulle pendici e possibile ammirare i ruderi del “Cummintazzu”, antico eremo di monaci denominato S.Maria di l’Artisina.
Di
questa suggestiva città siciliana, noti per la loro incantevole
bellezza, sono da menzionare la Montagna di Mezzo, il Monte Scala e
il Monte Boscorotondo: luoghi naturali che mostrano affascinanti
ambienti rocciosi e un'intricata vegetazione boschiva, presenti anche
querce da sughero, roverelle, lecci e ogliastri. Sulle pendici di
Montagna di Mezzo si posso ammirare i ruderi della Masseria
della Principessa,
antico opificio per la produzione dell'olio. Sul versante meridionale
di Monte Scala si innalza un antico abitato rupestre conosciuto col
nome di Grotte
Formose. E’
interessante citare il Lago
Nicoletti,
nato negli anni settanta come invaso artificiale, che ospita
stagionalmente numerosi uccelli migratori oltre ad altre specie
legate all'ambiente acquatico.
Lungo
la vallata del fiume Bozzetta è ubicata Villa
Gussio,
interessante realizzazione patrizia dell'800. Di notevole attrazione
sono i reperti archeologici industriale tra cui la
Filanda, la
Miniera di Zolfo di Faccialavata
ed i mulini ad acqua.
Leonforte
è terra ricca di storia, cultura, miti, credenze, religione,
tradizioni popolari e feste ampiamente condivise che rendono questo
luogo una intensa ed affascinante culla di folklore. Ad esempio
l’evento dell'Artara di San Giuseppe a Leonforte ha una tradizione
lunga 400 anni. Le Tavolate
sparse in tutto il territorio vengono invase da tantissimi turisti
che arrivano nella città
della Granfonte per
prender parte ad una delle feste più sentite dalla comunità. Via I
Maggio, Giuseppe Baia, Nocilla, Raimondo, Condotti, piazza Cappuccini
e corso Umberto (villa Bonsignore), sono solo alcune delle vie che
ospitano svariati altari i quali, a partire dal pomeriggio del giorno
18 marzo, vengono poi visitati da un gran numero di persone pronte a
trascorrere una serata all’insegna della devozione e della
degustazione di vini,
cardi, sfingi, finocchi, “pupidduzzi”
(il noto pane benedetto) ed altri prodotti tipici. Caratteristica
particolare del San Giuseppe è la collaborazione dei commercianti
leonfortesi che nelle proprie vetrine espongono altarini votivi a San
Giuseppe. Già dal pomeriggio del giorno 18 marzo e per tutta la
notte fino alle prime luci dell’alba, una moltitudine di gruppi
festosi si riversa per le antiche strade di Leonforte impegnata a
"girari l’Artara",
un lungo peregrinare alla ricerca degli altari, individuati da
inequivocabile segnaletica: un tempo una semplice scatola di scarpe
foderata di carta velina rossa illuminata dall’interno così da
potersi leggere, ritagliato sul coperchio, l’acronimo: W
S.G. (Viva
San Giuseppe), oggi
sostituita da una più pretenziosa stella punteggiata di numerose
luci. Gli
altari o tavolate sono
realizzate da chi ha "fatto
voto” e consistono
in una grande tavola imbandita oltre che di pane lavorato in
particolarissime foggie (le “cuddure”).
Il pane è
sicuramente l’elemento fondamentale dell’altare ed indica la
“Grazia di Dio”. La preparazione dell’altare, appunto, richiede
l’apporto e lo sforzo dell’intero vicinato (S.
Giuseppi voli traficu: S. Giuseppe
esige un estenuante lavoro). L’altare viene concluso dal
“cielo”,
ovvero da un drappeggio
di veli da sposa disposti
ad
arte
come un baldacchino, e
da una immagine del Santo posta tra i veli proprio di fronte.
La lunga notte della girata dill’Artari trova il suo momento più importante quando Leonforte è letteralmente invasa da una moltitudine di visitatori provenienti da ogni parte della Sicilia e si assiste alla recita delle raziuneddi: preghiere dialettali che narrano la vita di Gesù, di solito dette da intraprendenti ragazzini che così si guadagneranno i pupiddi da portare al collo, tenuti insieme da uno spago fatto passare attraverso il foro centrale del pane, fregiandosi di questa collana con orgoglio. A mezzogiorno del giorno 19 marzo, si giunge alla cerimonia conclusiva con la partecipazione dei santi ai quali verrà distribuito quanto imbandito sull’altare. Ad ogni santo, attraverso rituali codificati, vengono distribuite una serie di vivande, non prima però che il padrone di casa, con un rito che vagamente ricorda quello dell’ultima cena, abbia provveduto loro alla lavanda ed al bacio dei piedi. A Leonforte vi sono anche dei prodotti tipici, caratterizzanti e molto noti che rafforzano maggiormente la fama e la bellezza di questa terra siciliana. Leonforte, è famosa per le sue pesche dette “settembrine” che maturano tra la fine di agosto e l'inizio di novembre con una concentrazione nel periodo che va da settembre a ottobre. Sono esternamente gialle con polpa molto aromatica. La caratteristica peculiare che contraddistingue la peschicoltura a Leonforte è la pratica dell'insacchettamento sulla pianta dei singoli frutti, a partire dalla seconda metà di giugno, quando le pesche verdi vengono inglobate in sacchetti di carta (manualmente). Nel periodo di ottobre ogni anno si attua la Sagra delle Pesche e dei prodotti tipici di Leonforte. La Sagra non è solo dedicata alla pesca, ma è divenuta un’occasione per la promozione di altri prodotti tipici: la “Fava Larga”, l’olio extravergine di oliva, le mandorle, legumi di ogni tipo, conserve e altri prodotti provenienti da tutte le parti della Sicilia quali il miele biologico e i fichidindia. Per l'occasione, vengono allestiti punti per la degustazione delle pesche preparate in particolari e gradevoli confezioni, sono presenti stand con prodotti autoctoni e manufatti artigianali. L’evento è accompagnato da spettacoli teatrali, canti e balli folkloristici. Il tutto ha come sfondo la splendida cornice del Centro Storico di Leonforte e delle sue maggiori piazze. Leonforte, grazie anche alla Sagra, diventa meta per un attento approfondimento storico e culturale e folkloristico di questa terra.
La lunga notte della girata dill’Artari trova il suo momento più importante quando Leonforte è letteralmente invasa da una moltitudine di visitatori provenienti da ogni parte della Sicilia e si assiste alla recita delle raziuneddi: preghiere dialettali che narrano la vita di Gesù, di solito dette da intraprendenti ragazzini che così si guadagneranno i pupiddi da portare al collo, tenuti insieme da uno spago fatto passare attraverso il foro centrale del pane, fregiandosi di questa collana con orgoglio. A mezzogiorno del giorno 19 marzo, si giunge alla cerimonia conclusiva con la partecipazione dei santi ai quali verrà distribuito quanto imbandito sull’altare. Ad ogni santo, attraverso rituali codificati, vengono distribuite una serie di vivande, non prima però che il padrone di casa, con un rito che vagamente ricorda quello dell’ultima cena, abbia provveduto loro alla lavanda ed al bacio dei piedi. A Leonforte vi sono anche dei prodotti tipici, caratterizzanti e molto noti che rafforzano maggiormente la fama e la bellezza di questa terra siciliana. Leonforte, è famosa per le sue pesche dette “settembrine” che maturano tra la fine di agosto e l'inizio di novembre con una concentrazione nel periodo che va da settembre a ottobre. Sono esternamente gialle con polpa molto aromatica. La caratteristica peculiare che contraddistingue la peschicoltura a Leonforte è la pratica dell'insacchettamento sulla pianta dei singoli frutti, a partire dalla seconda metà di giugno, quando le pesche verdi vengono inglobate in sacchetti di carta (manualmente). Nel periodo di ottobre ogni anno si attua la Sagra delle Pesche e dei prodotti tipici di Leonforte. La Sagra non è solo dedicata alla pesca, ma è divenuta un’occasione per la promozione di altri prodotti tipici: la “Fava Larga”, l’olio extravergine di oliva, le mandorle, legumi di ogni tipo, conserve e altri prodotti provenienti da tutte le parti della Sicilia quali il miele biologico e i fichidindia. Per l'occasione, vengono allestiti punti per la degustazione delle pesche preparate in particolari e gradevoli confezioni, sono presenti stand con prodotti autoctoni e manufatti artigianali. L’evento è accompagnato da spettacoli teatrali, canti e balli folkloristici. Il tutto ha come sfondo la splendida cornice del Centro Storico di Leonforte e delle sue maggiori piazze. Leonforte, grazie anche alla Sagra, diventa meta per un attento approfondimento storico e culturale e folkloristico di questa terra.
Dott.ssa
Serena Amato
Serena Amato, nata a
Napoli ventisette anni fa, ha una laurea triennale in Conservazione
Dei beni culturali
DemoEtnoAntropologici del Mediterraneo conseguita con 110 e lode
e menzione accademica
della commissione esaminatrice unanime e una laurea specialistica
in Scienze dello
spettacolo e della produzione Multimediale reportage
socio-antropologico anch’essa conseguita con la votazione 110 e
lode. Ha partecipato alla stesura de “Il libro delle superstizioni”
del Prof. M. Niola. e della Prof.ssa E. Moro. Attualmente è
collaboratrice presso la Cattedra universitaria di Antropologia ed
Etnologia.
Dott.ssa Serena Amato
Serena Amato, nata a
Napoli ventisette anni fa, ha una laurea triennale in Conservazione
Dei beni culturali
DemoEtnoAntropologici del Mediterraneo conseguita con 110 e lode
e menzione accademica
della commissione esaminatrice unanime e una laurea specialistica
in Scienze dello
spettacolo e della produzione Multimediale reportage
socio-antropologico anch’essa conseguita con la votazione 110 e
lode. Ha partecipato alla stesura de “Il libro delle superstizioni”
del Prof. M. Niola. e della Prof.ssa E. Moro. Attualmente è
collaboratrice presso la Cattedra universitaria di Antropologia ed
Etnologia.