“La
Giustizia Amministrativa tra nuovo modello regionale e modello
federale”
La
giustizia siciliana: un unicum nel panorama italiano. Possibile come
modello da esportare?
*Di
Daniela Mainenti
Dato
che l’elemento caratterizzante il modello siciliano della giustizia
amministrativa è costituito dal Consiglio di Giustizia
Amministrativa per la Regione Siciliana, è da questo che bisogna
prendere le mosse, al fine di valutarne, ad oltre cinquant’anni
dalla istituzione, le principali caratteristiche, e la compatibilità
della disciplina che ne regola la costituzione ed il funzionamento
con i principi costituzionali, alla luce della loro corrente
interpretazione, anche con riferimento alle profonde modifiche che al
sistema della tutela giurisdizionale sono state recentemente
introdotte.
Tale
esame è tanto più opportuno se si tiene conto del fatto che il
Consiglio di Giustizia Amministrativa è caratterizzato da una
duplice difformità, una duplice anomalia: è un organo a
composizione mista (magistrati togati e laici) che decide appelli
proposti avverso sentenze di un organo, il Tribunale Amministrativo
Regionale per la Sicilia, interamente composto, come tutti i TAR, da
magistrati togati; è un organo composto in parte da membri designati
dalla Regione che decide in via definitiva - e con competenza
territoriale derogabile, tale essendo quella dei giudici di primo
grado - anche su atti di autorità statali, centrali , e periferiche
sedenti in Sicilia.
La
base costituzionale del Consiglio di Giustizia si rinviene, come è
noto, nell’art. 23 dello Statuto siciliano, secondo il quale “Gli
organi giurisdizionali centrali avranno in Sicilia le rispettive
sezioni per gli affari concernenti la Regione” (1° comma); “Le
sezioni del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti svolgeranno
altresì le funzioni rispettivamente consultive e di controllo
amministrativo e contabile”
(2° comma); “I
ricorsi amministrativi, avanzati in linea straordinaria contro atti
amministrativi regionali, saranno decisi dal Presidente della
Regione, sentite le Sezioni regionali del Consiglio di Stato” (4°
comma; il 3° comma non interessa il tema della relazione perché
concerne la nomina dei magistrati della Corte dei conti).
La
previsione statutaria invero non è ascrivibile all’autonomia
regionale, neppure a quella, decisamente spinta, prefigurata dallo
Statuto siciliano (ma solo in parte vigente nella costituzione
materiale). L’autonomia consiste, infatti, nell’attribuzione di
competenze legislative ed amministrative alla Regione, mentre quello
prefigurato dall’art. 23 è un decentramento territoriale di organi
giurisdizionali statali.
L’una
e l’altro si devono attribuire, quanto alle origini, alle
aspirazioni dei siciliani, particolarmente vive nel 1944-45, ma
risalenti alle vicende del 1860-61, delle quali i costituenti
siciliani avevano avuto tramandata la memoria.
Limitando
l’esame all’argomento che ci interessa, è da rammentare che la
previsione statutaria di cui all’art. 23 rispondeva ad un mai
sopito rimpianto dei siciliani ed in particolare del foro, lasciato
dalla soppressione, con l’unificazione attuata nel 1923, della
Corte di Cassazione di Palermo.
Ma
la tradizione era ancora più antica: risaliva (a volere trascurare
il passato più remoto) all’ordinamento del Regno delle Due
Sicilie. Aveva sede in Palermo, distinta da quella di Napoli, la
Corte suprema di giustizia, vale a dire la Corte di cassazione. Ed
allorché, dopo la restaurazione, fu ripristinato il contenzioso
amministrativo, furono costituite, quali giudici di prima istanza in
materia di contratti, lavori e forniture delle amministrazioni
centrali, due Gran Corti dei Conti, una per la parte continentale del
Regno (“domini
al di qua del Faro”)
e l’altra per la Sicilia (“domini
al di là del Faro”),
con sede in Palermo. L’appello era portato alle due Consulte di
Stato, l’una per le province continentali e l’altra per la
Sicilia. Soppresse queste ultime con l’unificazione, le due Gran
Corti dei Conti continuarono a funzionare sino alla legge abolitiva
del contenzioso amministrativo del 1865.
I
cenni che precedono non devono essere intesi come una apologetica
rievocazione, la quale sarebbe oggi priva di senso, ma come una
spiegazione delle ragioni storiche ed ideologiche che determinarono,
in sede di elaborazione ed approvazione dello Statuto siciliano,
l’introduzione della previsione (significativamente presente in
tutti e quattro i progetti di Statuto che furono predisposti relativa
al decentramento delle giurisdizioni superiori ed anche di quella che
un tempo era la giustizia ritenuta, vale a dire il ricorso
straordinario). E’ solo la tradizione che può spiegare l’art. 23
St., il quale costituisce indubbiamente un unicum.
La
norma statutaria è stata attuata pienamente soltanto per quanto
concerne la Corte dei conti, della quale è stata istituita con D.
lgs. 18 giugno 1999, n. 200, una sezione giurisdizionale di appello.
Non ha avuto alcun seguito per quanto concerne la Corte di
cassazione.
Relativamente
alla giurisdizione amministrativa, la previsione statutaria ha avuto
applicazione con il decreto legislativo presidenziale 6 maggio 1948,
n. 654 (approvato dal Consiglio dei Ministri nell’esercizio della
potestà legislativa che gli apparteneva durante il regime
costituzionale provvisorio), con il quale, in luogo delle previste
sezioni del Consiglio di Stato, venne istituito il Consiglio di
Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana (con competenza
d’appello sulle decisioni delle Giunte provinciali amministrative,
di unico grado sugli atti dell’amministrazione regionale e delle
altre autorità amministrative aventi sede nella Regione, e di primo
grado, con appello all’adunanza plenaria del Consiglio di Stato,
sugli atti delle autorità amministrative dello Stato).
Ad
opporsi alla piena attuazione della norma statutaria fu il Consiglio
di Stato, il quale, con parere dell’Adunanza Generale 11 luglio
1946, n. 78 (Presidente dell’Istituto era Meuccio Ruini), si
pronunziò in senso nettamente contrario alla istituzione delle
sezioni del Consiglio di Stato, assumendo che essa avrebbe
compromesso “l’unità del sistema giuridico nazionale”, ed a
favore della istituzione “di un organo regionale con funzioni
consultiva e giurisdizionale esercitate da due distinte Sezioni, e
con ordinamento analogo a quello del Consiglio di Stato”
Fino
a che punto fosse, non già semplicemente riduttiva, ma palesemente
in contrasto con la previsione statutaria, la posizione dell’Adunanza
Generale, risulta particolarmente evidente se si tiene conto del
fatto che, secondo quanto si legge nel parere, la funzione consultiva
dell’istituendo organo, opportunamente ampliata, avrebbe dovuto
assorbire quella dei Consigli di prefettura, mentre la funzione
giurisdizionale avrebbe dovuto sostituirsi a quella delle Giunte
Provinciali Amministrative. In altri termini si sarebbe trattato di
un organo di giustizia amministrativa di primo grado, quale poi fu
previsto dall’art. 125 della Costituzione (approvata
successivamente).
La
formula che troviamo nel decreto istitutivo del 1948 fu il frutto di
un accordo tra il Presidente del Consiglio di Stato, Ferdinando
Rocco, e Don Luigi Sturzo. E’ da supporre che Sturzo deve avere
faticato non poco per convincere Rocco a convenire la soluzione che
fu adottata. Lo si desume dalla circostanza che nel discorso di
insediamento di Rocco alla Presidenza del Consiglio di Stato si legge
del “grido di allarme del nostro Consesso, che nello smembramento
della giustizia ha ravvisato un pernicioso attentato alla unità
della sovranità dello Stato, di cui la giustizia è gelosa
espressione”. E più avanti si paventa “la disintegrazione
dell’unitarietà delle sue funzioni consultive e contenziose,
conquista ormai intangibile”. Si ribadisce poi la proposta di
istituzione in ogni Regione di un organo di giustizia amministrativa
in sostituzione delle Giunte Provinciali Amministrative.
Quanto
le preoccupazioni del Consiglio di Stato e dei suoi massimi esponenti
fossero infondate è di tutta evidenza. Basti considerare che quel
che lo Statuto voleva era soltanto un decentramento territoriale,
vale a dire la istituzione di due nuove sezioni, l’una
giurisdizionale e l’una consultiva, interamente composte come tutte
le altre sezioni del Consiglio di Stato, con un’unica differenza:
anziché avere sede a Roma, avrebbero avuto sede a Palermo.
Per
contro, a volere adottare una visione rigorosa dell’esigenza
dell’unitarietà della giurisdizione, è semmai la composizione
mista disposta con il decreto istitutivo che avrebbe potuto suscitare
delle preoccupazioni. Le quali invero furono subito dissolte per
merito del buon funzionamento dell’organo, a partire dalla sua
costituzione, dovuto soprattutto alla elevata qualità dei magistrati
che vennero chiamati a comporlo, alla passione e all’orgoglio con
cui essi svolsero le loro funzioni, ed alla felice scelta che
caratterizzò le designazioni dei non togati da parte della Regione.
Di
tutto questo rendono testimonianza in particolare le quattro
relazioni del Consiglio di Stato al Presidente del Consiglio dei
Ministri che vanno dal 1947-51 al 1961-65, per ciascuno delle quali
un’apposita appendice, costituita da un corposo volume, è
interamente dedicata al Consiglio di Giustizia Amministrativa.
Nelle
relazioni dei successivi periodi, il Consiglio di Giustizia
Amministrativa scompare perché evidentemente non v’è nessuno
disposto a scrivere l’appendice che lo riguarda, ma l’attività
del Consiglio in tutti questi anni è testimoniata dalle sentenze e
dai pareri che esso ha prodotto, la cui qualità è dovuta ancora,
come già negli anni della fondazione, alla circostanza, fortunata
per la Sicilia, che hanno chiesto di farne parte magistrati di grande
spessore professionale (oltre che umano).
La
inderogabilità della competenza del sistema costituito dal TAR
Sicilia e dal CGA farebbe venire meno l’anomalia della quale si è
detto riguardo agli atti statali in quanto assicurerebbe che i
giudizi attribuiti a tale sistema sarebbero esclusivamente quelli
riguardanti atti delle autorità statali centrali aventi efficacia
soltanto nell’ambito del territorio della Regione siciliana. Una
tale previsione sarebbe pienamente conforme allo spirito della norma
statutaria quale risulta dai lavori preparatori. I costituenti
siciliani volevano che tutte le controversie avessero “in Sicilia
il loro intiero e totale svolgimento”
Le
considerazioni sinora svolte, ed in particolare gli auspici espressi
circa la piena attuazione dell’art. 23 dello Statuto, e/o le
possibili modifiche della disciplina del Consiglio di giustizia, non
devono essere intese come una critica al funzionamento del sistema
siciliano.
Al
contrario si deve affermare che l’esperienza di oltre un
cinquantennio, ed in particolare quella successiva alle sentenze, in
concreto normative, della Corte costituzionale e dell’Adunanza
plenaria, che vede il CGA come giudice di appello su tutte le
sentenze del TAR Sicilia, si è rivelata felice.
E
non soltanto per l’ovvia ragione della vicinanza fisica
dell’organo, sedente nel capoluogo dell’isola, ma perché abbiamo
un unico giudice di appello che si occupa solo delle sentenze di un
unico TAR, sebbene articolato in sede e sezione staccata, e,
nell’ambito di ciascuna di esse, in sezioni interne.
Ne
discendono due grandi vantaggi. In primo luogo la specializzazione.
La normazione regionale è ormai imponente, e, per la specialità
dello Statuto, i tratti nei quali essa si differenzia dalla
disciplina statale sono consistenti. Poiché l’avvicendamento dei
componenti del Consiglio di giustizia è sempre graduale, i giudizi
in appello sono sempre esaminati da un collegio che ha acquisito una
esperienza notevole diuturnamente accresciuta.
In
secondo luogo l’unicità del giudice di appello comporta che gli
aggiustamenti della giurisprudenza del giudice di primo grado
risultano più agevoli e più sicuri
Infine,
per quanto concerne la esportabilità del modello, è agevole
osservare che, proprio per le anomalie delle quali si è parlato, il
modello siciliano non è esportabile.
*Daniela Mainenti:
Professoressa diritto processuale penale e comparato Link Campus
University Palermo
Research Director of Ruo e Director of The International Seal
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